Le tensioni fra governo e sindacati sul pubblico impiego – con la minaccia di sciopero da parte dei sindacati – commentate dall’editorialista Giuliano Cazzola
L’ultimatum dei sindacati al governo per sollecitare i rinnovi dei contratti del pubblico impiego risuona come un concerto di ottoni e termina con una requisitoria corale che lascia annichilita l’opinione pubblica per la durezza con cui vengono denunciati i problemi di lavoratori che vogliono cambiare la PA (a partire dalle loro retribuzioni) al servizio dei cittadini, ma che non riescono a farlo per l’inerzia o l’indisponibilità del governo a volare alto.
Ma è l’ultima parte del ‘’grido di dolore’’ unitario a mettere Conte con le spalle al muro. I sindacati, infatti, accusano il ddl di bilancio di avere il ‘’braccio corto’’ nello stanziamento delle risorse economiche da destinare ai rinnovi, sottraendosi così dal promuovere ‘’la transizione verso l’innovazione dei servizi’’.
“Sono poche le risorse per il salario – scrivono i segretari incaricati di dirigere le politiche dell’impiego pubblico – poche e non per tutte le aree professionali le risorse per specifiche indennità , non c’è attenzione alla necessità di innovazione, vorremmo ad esempio poter superare inquadramenti professionali desueti e inserire le nuove figure professionali. In tale contesto, è prioritario che in sede di rinnovo dei contratti si affronti seriamente il capitolo delle relazioni sindacali al fine di restituire ruolo e valore alla contrattazione, in particolare attraverso la riappropriazione di materie utili alla gestione della transizione verso l`innovazione dei servizi a partire dal’organizzazione del lavoro e dalla salute e sicurezza che nel settore pubblico sono prerogativa del datore di lavoro mentre nel privato della contrattazione. Le lavoratrici e i lavoratori del settore pubblico – si eleva alta la protesta dei sindacalisti – dicono basta a questa opera di svalorizzazione e si preparano alla mobilitazione generale: è ora di cambiare la Pa e di farlo con chi rappresenta il lavoro. O ci sarà il tavolo del governo con le categorie per recuperare le risorse necessarie al cambiamento o continueremo nella nostra azione di lotta”.
Queste levate di scudi sono ormai un fatto ordinario; sono parte dei rituali del pubblico impiego. Il governo, in una fase di partenza della sessione di bilancio, si preoccupa prioritariamente di accendere dello poste e a destinare ad esse un pacchetto di risorse, in quel momento disponibili e compatibili con il quadro generale, magari riservandosi di adeguarle sulla base delle intese negoziali che nel frattempo fossero intervenute. Quindi sul versante sindacale non vi è altro che la solita solfa.
Ma ci sono momenti opportuni o inopportuni, anche nel caso dei sindacati, per potersi permettere certe minacce. Le persone e le famiglie, gli studenti, i lavoratori temono che vengano a mancare quei servizi la cui tenuta, ai sensi delle norme di legge, è giudicata essenziale. E pur comprendendo le ragioni (non di tutti) degli scioperanti, l’opinione pubblica non è disposta ad essere solidale con gli scioperati. E, guarda caso, è proprio Giuseppe Conte a proporsi paladino del malcontento di tanti cittadini in buona fede e preoccupati per vedersi mancare pure quei servizi di cui il contagio ha risparmiato la chiusura. E dà sfoggio di quel buon senso comune che sarebbe indispensabile anche per i dirigenti sindacali.
“Siamo in un periodo in cui si proporranno nuove e diverse disuguaglianze. Un impiegato pubblico oggi, non muovendosi da casa, può esercitare – puntualizza Conte – la propria attività con risparmio di tempo e risorse, mentre molte altre categorie stanno soffrendo veramente. Ad esempio, gli esercizi commerciali e le partite Iva hanno serie difficoltà ”.
Non è agevole leggere tra le righe della dichiarazione di Conte una rappresentazione di ciò che rappresenti veramente lo smart working nella Pa? Ovvero – come ebbe a dire Pietro Ichino – un periodo di ferie in più?
Ma i sindacati potrebbero rispondere: se così stanno le cose perché il governo si pavoneggia esibendo una maggiore produttività – sia da remoto che dagli uffici – dei pubblici dipendenti?
E addirittura perché lo smart working viene sbandierato come la prospettiva della nuova organizzazione degli apparati amministrativi, quando Conte è il primo ad ammettere che la realtà quotidiana è ben più accomodante?
Nessun commento:
Posta un commento