Obiettivi, soldi, incognite e domande sulla neonata fondazione degli 007 italiani chiamata Istituto Italiano di Cybersicurezza. L’opinione di Umberto Rapetto
Siccome – secondo il Premier Conte – “Il Natale è un momento di raccoglimento, in tanti non viene bene”, il nostro Governo ha deciso di festeggiare un’altra nascita. Nel presepe istituzionale è così venuto alla luce l’Istituto Italiano di Cybersicurezza” o IIC come già lo si abbrevia.
In un momento drammatico come quello che stiamo vivendo, nella mangiatoia (non si pensi ad un involontario o deliberato doppio senso, perché il riferimento è solo alla Natività) appare “la fondazione degli 007 italiani”.
Chi pensa si tratti di una boutade, smetta di ridere.
In un Paese dove quotidianamente si leggono sconfortanti notizie di violazioni informatiche, invece di frustare chi non ha fatto bene il suo lavoro e di domandarsi come possano verificarsi certi incidenti, si è pensato di buttar via decine (e nel tempo centinaia) di milioni di euro nell’ennesima task force (di questo tutto sommato si tratta) dal nome altisonante e dai ritorni proporzionali alle analoghe squadre speciali già messe in campo per l’emergenza Coronavirus (scomparse dai radar forse già il giorno seguente alla nomina).
Se è istintivo esclamare “ma non potrebbero andare a lavorare?”, è razionale chiedersi cosa stia succedendo a spese del contribuente e alla faccia di chi vive con terrore la pandemia, la cassa integrazione, la disoccupazione, la disperazione.
La finalità della Fondazione sarebbe quella di “promuovere e sostenere l’accrescimento delle competenze e delle capacità tecnologiche, industriali e scientifiche nazionali nel campo della sicurezza cibernetica e della protezione informatica”. Ovvero la cosa più ovvia del mondo, che dovrebbe essere insita nella crescita del Paese e che se non lo è lo si deve ai pupazzi messi dalla politica nei posti di responsabilità pubblici e privati.
Poi si legge che deve “favorire lo sviluppo della digitalizzazione del Paese, del sistema produttivo e delle pubbliche amministrazioni in una cornice di sicurezza”. Ma non se ne occupavano già il Ministero dello Sviluppo Economico e quello per l’Innovazione tecnologica e per la Digitalizzazione, straboccanti di esperti pagati profumatamente?
Cosa si vuol far credere quando si dice che il neonato IIC deve agevolare anche “il conseguimento dell’autonomia, nazionale ed europea, riguardo a prodotti e processi informatici di rilevanza strategica, a tutela dell’interesse della sicurezza nazionale nel settore”, quando non abbiamo più una industria italiana che progetti e produca davvero e non si limiti a “ritargare” creazioni cinesi, coreane, israeliane o statunitensi?
Il festoso parto dell’IIC comporta l’eliminazione del Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica (o CISR che siglar si voglia), oppure avremo un sostanziale doppione.
Se è evidente “cosa” dovrà fare la Fondazione, è forte la curiosità di sapere “come”. Il modello di azione delle “task force” dell’emergenza Covid può anticipare già qualcosa.
E’ certo che l’avvento dell’Istituto per la Cybersicurezza – come i Re Magi – porta qualche poltrona, da quella del Commissario Unico (non straordinario come Arcuri) e dei componenti del Collegio dei revisori dei conti” a chi sarà organico negli uffici che devono assicurare il funzionamento della struttura.
I più malvagi ritengono sia fin troppo chiaro il perché dell’IIC, anche se nessuno (per timore di pregiudicare un possibile coinvolgimento nella partita) ne parla.
Le lingue “grame” dicono che lo spettro di qualche mancata rielezione (per compiuto “doppio mandato” o, in caso di superamento di tale barriera, per colpa degli elettori venuti meno) viene così certamente esorcizzato.
Ma c’era bisogno di creare un altro burosauro da 210 milioni di euro? Qualcuno lo può spiegare a chi sta vendendo le poche cose che ha per sopravvivere
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