Che cosa succederà a Ilva con Invitalia? Fatti e scenari nell’analisi di Federico Pirro
La videoconferenza di venerdì scorso fra i ministri Gualtieri, Patuanelli e Catalfo con i Sindacati dei metalmeccanici sulle complesse questioni del gruppo Ilva oggi in locazione (propedeutica all’acquisto) ad Arcelor Mittal tramite la sua controllata AmInvestco Italy ha dato un esito che potremmo definire positivo, ma ancora interlocutorio.
Varie testate giornalistiche hanno registrato le affermazioni della Ministra del lavoro – la quale ha definito strategico il settore dell’acciaio – e le comunicazioni di Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia, che ha parlato di uno stato avanzato della trattativa che potrebbe portare la sua società nel capitale di AmInvestco, probabilmente anche con quote di maggioranza, mentre sotto il profilo strettamente impiantistico, e con riferimento al sito di Taranto, si dovrebbe puntare al revamping dell’Altoforno n.5, uno dei maggiori d’Europa per capacità e ormai spento da anni, e dell’Altoforno n.1, tuttora in esercizio. Si dovrebbero inoltre introdurre 2 forni elettrici per conservare una capacità produttiva di 8 milioni di tonnellate annue, in grado di mantenere gli attuali livelli occupazionali.
Questo in sintesi è quanto abbiamo letto sulla stampa. Ora, alla luce di tali notizie, comunque molto interessanti perché ribadiscono che l’area a caldo della fabbrica ionica verrà conservata, le domande che tuttavia Sindacati e vari osservatori si pongono sono tante. Proviamo ad elencarne alcune:
- Invitalia entrerebbe nel capitale di Aminvestco Italy, accollandosene così pro quota le perdite che però non ha contribuito a generare? Non sarebbe più opportuno che esse venissero ripianate da Arcelor per poi procedere ad una ricapitalizzazione societaria percentualmente definita fra i due azionisti?
- Se Invitalia divenisse socia di maggioranza, la conduzione effettiva della società a chi sarebbe riservata? Ad un management presumibilmente stabilito di comune accordo? Ma su quali reali volumi produttivi si punterebbe, una volta terminati i lavori in corso per l’Aia – che limitano oggi a 6 milioni di tonnellate la produzione, peraltro scesa quest’anno fra i 3 e i 4 milioni, con massiccio ricorso alla cassa integrazione? In altre parole, se il mercato ripartisse con più forza in una fase post-covid, il sito di Taranto potrebbe essere portato a fare concorrenza ai siti di Arcelor di Dunkerque e Fos sur mer in Francia? Che senso avrebbe infatti difenderne, sia pure in parte riconvertendola, l’attuale capacità portandola di 8 milioni di tons, se poi non la si volesse impiegare per intero? Per non fare concorrenza ad Arcelor che è socio, ma anche temibile concorrente?
- L’occupazione che si dice di voler conservare sui livelli attuali, ovvero 10.700 addetti diretti fra Taranto, Genova e Novi Ligure, potrebbe realmente essere difesa – soprattutto nella fabbrica ionica, ove sono impiegati 8.200 fra operai, tecnici, quadri e dirigenti – quando l’introduzione di due forni elettrici richiederebbe meno manodopera non essendoci più bisogno di alcune cockerie?
- Altiforni e forni elettrici sarebbero poi alimentati anche dal DRI, ovvero il preridotto di ferro? E lo si produrrebbe a Taranto, avendo però negoziato e ottenuto un prezzo del gas necessario per produrlo a prezzi convenienti, o sarebbe meno costoso se lo si acquistasse sul mercato?
- E se si decidesse di produrlo nella città ionica con una nuova società , vi entrerebbero come soci anche i maggiori acciaieri italiani, come avevano dichiarato di voler fare nei mesi scorsi, volendo utilizzarlo con il rottame per i loro forni elettrici, per impiegarvi così meno minerale di ferro? Rottame peraltro sempre meno disponibile anche sui mercati internazionali, e perciò sempre più costoso.
- E qualora si costituisse questa società vi sarebbero impiegati i lavoratori comunque destinati a diventare esuberi nell’acciaieria con l’introduzione dei forni elettrici?
- E nell’attesa di procedere alla loro introduzione – impianti peraltro da ordinare, costruire, montare e porre in esercizio con gli adeguamenti impiantistici necessari a ‘valle’ – lo stabilimento, dovendo restare sul mercato, continuerebbe a funzionare con gli attuali Afo 1, 2 e 4, se il mercato naturalmente lo richiedesse?
- E il portafoglio clienti chi lo controllerebbe? La joint-venture fra Invitalia e ì francoindiani? Non si dimentichi neppure per un istante, lo si diceva in precedenza, che Arcelor sarebbe partner della società , ma anche un suo temibile concorrente: allora, tale sua condizione, già ora ma sempre più in prospettiva, non rischierebbe di creare intuibili problemi alla società in joint-venture con Invitalia, e soprattutto al sito tarantino?
- E i rapporti con le aziende dell’indotto e più in generale con il territorio, come sarebbero per la società di cui Invitalia diverrebbe socia? Oggi a Taranto si registra una incomunicabilità quasi assoluta fra azienda e Istituzioni locali – anche per responsabilità di quest’ultime, ad onore del vero – e rapporti difficili con molte aziende dell’indotto, peraltro bisognose di profonde ristrutturazioni che andrebbero comunque guidate. Anche la situazione delle relazioni sindacali è purtroppo molto deteriorata, a causa di comportamenti dell’azienda ispirati da una logica di scontro che già la Dottoressa Lucia Morselli, attuale amministratrice delegata della società , aveva sperimentato alla guida delle Acciaierie di Terni. Ma lo stabilimento di Taranto, per le sue dimensioni e per la problematiche impiantistiche che lo caratterizzano, non è gestibile se non attraverso una paziente, ma reale volontà di collaborazione quotidiana fra management e maestranze, pur nella distinzione dei loro ruoli.
Sono queste alcune domande suscitate dalle comunicazioni dopo l’incontro fra Ministri e Sindacati. E’ auspicabile allora che le risposte siano puntuali, precise e assolutamente limpide e senza ambiguità , perché l’impianto di Taranto è tuttora un pilastro del sistema manifatturiero nazionale, e non sono possibili incertezze circa il suo futuro. In questa complessa vicenda Arcelor Mittal tutela i suoi legittimi interessi di multinazionale quotata in alcune borse internazionali, interessi che molto probabilmente in una joint-venture con Invitalia temiamo che possano entrare in rotta in collisione con quelli dello Stato italiano e dell’industria nazionale.
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