Obiettivi e implicazioni geopolitiche dell’accordo fra 15 Paesi denominato Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) tra cui Cina, Giappone, la Corea del Sud, Singapore Nuova Zelanda e Australia. L’analisi di Giuseppe Gagliano
L’accordo siglato il 15 novembre denominato Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) fra 15 economie regionali tra cui la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, Indonesia, Cambogia, Vietnam, Thailandia, Filippine, Singapore, Brunei, Birmania, Laos, Cambogia e Vietnam, Nuova Zelanda e Australia coinvolgerà 2,2 miliardi di consumatori, cioè quasi un terzo della popolazione mondiale.
Questa storica partnership è stata siglata ad Hanoi, in Vietnam, a margine di una riunione dell’Asean volta a trovare una soluzione alle controversie sul Mar cinese meridionale.
In base a questo accordo, i Paesi contraenti abbasseranno le tariffe doganali consentendo ai prodotti d’esportazione di circolare al loro interno senza dover rispettare specifiche procedure per ogni singolo Paese.
È probabile che questa sinergia eliminerà il 90% delle tariffe sulle esportazioni tra le parti entro i prossimi 20 anni è che coinvolgerà numerosi settori del commercio quali l’e-commerce, le politiche di concorrenza e i diritti di proprietà intellettuale. Fino a qui i fatti.
Non c’è dubbio che questo accordo consentirà al Dragone di presentarsi come un vero e proprio campione della globalizzazione e della cooperazione multilaterale dando alla Cina maggiore influenza sulle regole che governano il commercio regionale.
In secondo luogo è difficile negare che questo accordo — fortemente voluto dalla Cina — sia finalizzato a limitare e contenere l’accordo americano noto come Trans-Pacific Partnership (TPP).
In terzo luogo questo accordo è sufficientemente ampio da consentire agevolmente ai diversi paesi di adattarsi senza tuttavia avere i rigidi vincoli posti dall’Unione europea ai suoi aderenti.
In quarto luogo, l’accordo non farà altro che rafforzare la proiezione di potenza cinese in relazione alla Nuova via della seta contribuendo certamente a ridimensionare l’egemonia americana in Asia nonostante le scelte politiche del magnifico duo Trump-Pompeo per limitare le ambizioni egemoniche cinesi.
In quinto luogo, una parte di coloro che ha aderito a questo accordo — come l’Australia e la Nuova Zelanda per esempio — dimostra come questi paesi non siamo disponibili a rinunciare agli enormi guadagni che un accordo di questo genere determinerà nonostante la loro fedeltà politica e militare agli Usa. Nulla di sorprendente da un punto di vista storico: Venezia, pur essendo un paese cattolico, non rinunciò mai a proseguire i suoi rapporti commerciali con l’impero ottomano nonostante le crociate. Potremmo dire con una battuta: pecunia non olet. Ieri come oggi.
In sesto luogo il fatto che l’India non abbia aderito a questo accordo è determinato anche — ma non solo — dal fatto che l’India intende, attraverso l’accordo con gli Stati Uniti, limitare l’egemonia cinese nell’indo Pacifico. Ebbene, proprio a tale proposito, una delle domande che dobbiamo porci, soprattutto alla luce dei numerosi articoli che abbiamo avuto modo di scrivere in relazione al rapporto conflittuale tra l’Australia e la Cina, è perché questa nazione abbia aderito a questo accordo. Potremmo rispondere con una battuta: l’Australia non è il centro del sistema solare asiatico ma è soltanto una delle sue lune. Ma cosa significa tutto ciò?
In primo luogo non dobbiamo dimenticare che i cinesi investono più di 10 miliardi di dollari l’anno in Australia sia nel settore degli immobili, delle infrastrutture, dell’assistenza sanitaria, dell’estrazione mineraria che dell’agroindustria. Ebbene se dovesse avvenire un calo degli investimenti cinesi nel paese o semplicemente una riduzione tutto ciò rappresenterebbe un vero e proprio collasso per l’economia australiana. Questo accordo scongiura un’eventualità di questa natura.
In secondo luogo l’Australia ha legami sempre più stretti sotto il profilo economico e militare con Giappone, l’India e il Vietnam. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’Asean è il secondo partner commerciale dell’Australia dopo la Cina.
In terzo luogo da tempo ormai l’Australia sta reinvestendo i suoi proventi minerari in nuove tecnologie di estrazione mineraria che vengono vendute ai cinesi nel nuovo parco industriale sino australiano sull’Isola di Zhoushan.
In quarto luogo, un’altra fonte di rilevante investimento da parte cinese in Australia, è determinato dai turisti. Sono infatti circa 9 milioni i turisti asiatici che vengono in Australia e quasi 100.000 gli studenti cinesi iscritti nelle scuole australiane. A tale proposito non dobbiamo dimenticare che gli asiatici hanno ormai sorpassato gli europei con la loro presenza in Australia poiché sono diventati il gruppo etnico più numeroso di migranti. Sia sufficiente citare un solo dato: il 5% della popolazione australiana è di origine cinese e complessivamente il 15% della popolazione australiana è di etnia asiatica.
Ora, al di là del caso specifico dell’Australia, questo accordo determinerà certamente una accelerazione del processo di integrazione dei paesi aderenti. Cosa significa concretamente ciò? Significa per esempio che questo accordo non farà altro che vincolare ulteriormente i membri più poveri dell’Asia come il Laos e la Cambogia alla Cina. Significa che questo accordo legherà sempre di più alla Cina la Malesia e le Filippine nonostante le contese relative al Mar cinese meridionale.
Ma significa anche che nonostante i numerosi contrasti tra il Vietnam e la Cina sui quali hanno giocato gli Stati Uniti per contenere la proiezione di potenza cinese questo accordo a nostro avviso potrebbe da un lato consentire la normalizzazione dei rapporti con la Cina indebolendo l’egemonia degli Stati Uniti nel sud-est asiatico e dall’altro lato potrebbe rendere del tutto marginali le operazioni per la libertà di navigazione poste in essere dagli Stati Uniti, della Francia e della Gran Bretagna nel Mar cinese meridionale.
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