L’intervento di Paolo Longobardi, presidente onorario di Unimpresa
Quando finirà il lockdown? Come gestire al meglio la seconda ondata della pandemia? Sono efficaci le misure per arginare i contagi del Covid? Il vaccino arriverà entro l’anno? E, una volta testato e messo in circolazione, il farmaco quando sarà in grado di proteggere le fasce più deboli della popolazione, come gli immunodepressi, i malati oncologici o gli anziani?
Il dibattito delle ultime settimane, in cui sono esponenzialmente cresciuti i casi positivi al Coronavirus, ruota principalmente attorno a questi interrogativi. Si ragiona, ovviamente, anche sui danni economici e, quindi, sui ristori necessari per aiutare chi subisce perdite dirette e immediate. C’è, tuttavia, un altro aspetto che, seppur non completamente ignorato da esperti e osservatori, non sembra in cima alle priorità delle istituzioni: la crisi innescata dal Covid sta ampliando progressivamente il disagio sociale, con la forbice che corre il rischio seriamente di allargarsi ulteriormente, marcando ancor di più il divario tra le fasce più abbienti della popolazione e chi è più debole.
È un divario inquietante, a cui bisogna guardare, oggi, con estrema attenzione. La sottovalutazione di questo problema potrebbe rappresentare un errore imperdonabile. Occorre, perciò, preoccuparsi dell’emergenza, ma anche concentrarsi sin d’ora sul “dopo”. Quando ci saremo lasciati alle spalle la tragedia sanitaria, dovremo rimettere insieme il Paese, profondamente squassato dalla pandemia, sotto molteplici punti di vista: sanitari, sociali, economici, psicologi, politici, civili: sarà una ricostruzione più faticosa e più complessa di quella del secondo Dopoguerra. La macchina demolita da questo infido virus è assai più “sofisticata” di quella bombardata dagli eserciti nemici durante l’ultimo conflitto mondiale del secolo scorso; ragion per cui, far ripartire il motore dell’economia del 2020 sarà senza dubbio più intricato della messa in moto di quello del 1945.
Da dove nascono le enormi difficoltà? Il lockdown – non solo in Italia, è un tema globale – se, da un lato, frena i contagi, dall’altro, inevitabilmente, cagiona il soffocamento progressivo dell’economia e gli effetti collaterali della spirale negativa del ciclo economico vanno arginati con risposte efficaci e rimedi concreti. Ciò non vuol dire disinteressarsi della questione “medica”. È fondamentale, però, essere consapevoli che l’impresa da affrontare, per la classe dirigente del Paese, è drammaticamente ardua: la soluzione richiede capacità superiori, velocità nell’analisi dei problemi e lungimiranza nell’individuare le soluzioni.
Se, oggi, ci troviamo a fare i conti con una popolazione spaventata dall’incertezza legata alla fine della pandemia oltre che dalle farraginose e confuse misure per far fronte all’emergenza, domani dovremo ricucire ferite profonde che lasceranno cicatrici indelebili, tanto nelle imprese quanto nelle famiglie. Ferite che lacereranno soprattutto il tessuto sociale: la ricchezza dei miliardari ha appena superato i 10mila e 200 miliardi di dollari ed è un record, mentre altri 115 milioni di persone nel mondo stanno per essere trascinati sotto la soglia di povertà proprio a causa del Covid. Un piano di riforme strutturali – che metta al centro un fisco più equo con l’obiettivo di rilanciare consumi e investimenti, in modo da favorire la rapida e tumultuosa ripresa dell’occupazione – è imprescindibile. Mai come in questa circostanza la stella polare del piano d’azione della politica dovrà essere il «lavoro» su cui è fondata la Repubblica italiana, come sancito dall’articolo 1 della Legge fondamentale dello Stato.
Sono queste le idee concrete e i ragionamenti che – da padre di famiglia, da imprenditore e da leader di un’associazione di imprese – vorrei leggere e ascoltare sempre nei discorsi sia dei capi di partito sia dei membri del governo. Di più: il programma volto alla ricostruzione del Paese, realmente condiviso da tutte le forze politiche dell’arco parlamentare, non dovrebbe avere un colore, ma dovrebbe essere finalizzato proprio a evitare che il grado di separazione della nostra società diventi una barriera invalicabile.
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