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venerdì 9 ottobre 2020

l difficile accordo per la Brexit tra Londra e Bruxelles

 

Brexit: tra Londra e l’Ue un’intesa sempre più difficile. L’articolo del presidente dell’Istituto Affari Internazionali Ferdinando Nelli Feroci

Nei lunghi mesi della fase più acuta del Covid-19 e dei lockdown che avevano paralizzato le attività economiche e reso più complicati contatti e negoziati, l’Unione europea aveva dovuto concentrarsi su priorità ben diverse dalla Brexit: definire linee comuni per limitare i contagi, avviare programmi comuni di ricerca su terapie e vaccini, e soprattutto adottare misure comuni in grado di contrastare gli effetti più immediati della pandemia sull’economia e successivamente decidere un programma comune di aiuti necessari per stimolare la ripresa e la ricostruzione (Next Generation EU).

I seguiti della Brexit e il destino dei negoziati per la definizione delle future relazioni fra la Ue e il Regno Unito erano scomparsi dalle agende delle istituzioni europee. Di Brexit, e di rapporti con Londra, per lunghi mesi non si è sentito parlare, anche perché di fatto i negoziati, interrotti nelle fase più grave della pandemia, erano poi proseguiti a ritmo ridotto e sotto traccia.

Ci ha pensato il primo ministro britannico Boris Johnson nei giorni scorsi a riportare la questione alla ribalta della cronaca e della politica, con una duplice mossa che ha sorpreso e spiazzato la controparte europea. Prima ha lanciato un ennesimo ultimatum ai negoziatori europei indicando la data del 15 ottobre come ultima scadenza utile per raggiungere un accordo sul futuro delle relazioni bilaterali post-Brexit.

E come se la minaccia di un nuovo ultimatum non bastasse, pochi giorni dopo il suo governo ha presentato in Parlamento un disegno di legge (l’Internal Market Bill) che contiene, tra le altre, alcune disposizioni esplicitamente mirate a rimettere in discussione – o meglio a consentire di violare – altrettante disposizioni del Protocollo sull’Irlanda del Nord, che costituisce parte integrante dell’accordo di recesso, a suo tempo solennemente sottoscritto dallo stesso governo britannico e ratificato dal Parlamento di Londra.

Il negoziato sul futuro delle relazioni bilaterali stava già di suo procedendo faticosamente e con molte difficoltà. A quanto è dato di conoscere, i punti più controversi tuttora aperti riguardano in particolare il futuro regime della pesca nelle acque britanniche e il regime degli aiuti di Stato.

Sulla pesca la Ue chiede il riconoscimento dei diritti storici di pesca per i pescatori europei. Londra resta ferma sull’idea di un regime che consenta al governo britannico di rilasciare discrezionalmente, e di anno in anno, diritti di pesca per pescatori europei.

E sugli aiuti di Stato, mentre la Ue chiede di assimilare le regole in vigore nel Regno Unito a quelle europee, con l’obiettivo di definire (come contropartita dell’accesso al mercato europeo di merci e servizi britannici) un level playing field,  che consenta di evitare ipotesi di concorrenza sleale, Londra non intende assumere impegni sull’argomento e pretende di mantenere il massimo di libertà di azione.

Due temi sicuramente complessi (gli aiuti di Stato più della pesca) ma probabilmente risolvibili, con un minimo di buona volontà da entrambe le parti.

Ma il quadro e le prospettive del negoziato sul futuro delle relazioni bilaterali è ora cambiato, e appare seriamente compromesso con la presentazione dell’Internal Market Bill, e la dichiarata intenzione del governo Johnson di voler rimettere in discussione, o violare, disposizioni cruciali dell’accordo di recesso. Un accordo internazionale, che, vale la pena di ricordare, era stato a lungo negoziato e poi sottoscritto dal britannico e ratificato dal Parlamento di Londra, quindi perfezionato sotto tutti i profili e pienamente in vigore, la cui violazione comporterebbe un vulnus gravissimo di principi fondamentali del diritto internazionale.

A Londra l’inattesa e sorprendente iniziativa dell’esecutivo Johnson sta suscitando le preoccupazioni e le proteste di chi vede drammaticamente compromessa la credibilità e l’affidabilità di un governo, che non si fa scrupoli di rimettere in discussione i contenuti di un accordo internazionale, al punto che anche importanti esponenti del partito del premier hanno manifestato esplicite riserve sull’iniziativa del governo.

Dal canto suo l’Ue non poteva non reagire. E così ha fatto la Commissione al più alto livello, minacciando non solo la sospensione del negoziato in corso, ma anche l’adozione di sanzioni nei confronti di Londra e il deferimento del Regno Unito alla Corte di Giustizia, per una clamorosa quanto fragrante violazione di un impegno solennemente sancito in un accordo internazionale a sua volta recepito nel diritto europeo.

Difficile allo stato prevedere come si svilupperà la vicenda. È possibile che ci troviamo in presenza dell’ennesimo “bluff” di Johnson, che avrebbe scelto di drammatizzare il confronto con l’Ue in parte per recuperare consensi (in calo anche come effetto della contestata gestione del Covid) presso il suo elettorato più radicalmente anti-europeo, e in parte per alzare la posta in un negoziato molto complesso e difficile con la Ue.

Possibile anche – ma meno probabile dati gli orientamenti prevalenti nel partito conservatore – che in sede di esame a Westminster del contestato disegno di legge vengano espunte quelle disposizioni che costituiscono un’evidente violazione dell’accordo di recesso, rendendo così possibile la ripresa del dialogo e del negoziato con Bruxelles.

Resta comunque la constatazione che allo stato attuale e, come conseguenza della duplice iniziativa di Johnson, la strada di un accordo con l’Ue si complica e appare sempre più in salita. Mentre lo scenario di una “hard Brexit”, di una uscita del Regno Unito dall’Ue senza accordo, sembra allo stato attuale molto più verosimile di qualche settimana fa. E questo malgrado l’evidenza – sottolineata da decine di autorevoli rapporti e analisi delle più svariate fonti – che una Brexit senza accordo danneggerebbe proporzionalmente molto di più il Regno Unito che l’Ue.

Se questo sarà l’esito non resterà che concludere che, nella percezione dell’estroso quanto imprevedibile primo ministro britannico, dare soddisfazione alle richieste, prevalentemente motivate da considerazioni ideologiche, di un visibile quanto illusorio recupero di sovranità nazionale conta di più che tutelare evidenti e ben dimostrati interessi economici nazionali.

Un’ulteriore dimostrazione, come se ce ne fosse stato bisogno, dei danni che può provocare il populismo nazionalista quando si trova a gestire responsabilità di governo.

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