Medico di base a Misano e impegnato con Medici senza Frontiere: «Tutti i pazienti hanno la stessa dignità». «In Africa ho uno stetoscopio rosso, se lo afferrano so che sono guariti»
In ambulatorio non c’è. È uscito per fare una visita urgente a un’anziana malata di Alzheimer. Arriva dopo dieci minuti, con la classica borsa in pelle da medico condotto. «Me l’ha regalata mio padre dopo la laurea, 21 anni fa. Ci tengo molto, perché è lo strumento che ti permette di andare dalla gente». Roberto Scaini è uno di quei dottori che ama muoversi. Sia quando è a Misano, medico di base a due passi dal lungomare, sia quando parte per Medici senza Frontiere. Ha iniziato nel 2011, ha già all’attivo 17 missioni. Dall’ultima, nello Yemen, è tornato a maggio. Era la quinta volta che ci andava, un veterano. «Era già un Paese poverissimo, dopo la guerra la situazione è precipitata. Curiamo feriti da arma da fuoco, ma anche bambini malnutriti, anziani, donne che rischiano la vita solo per partorire».
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Medici senza frontiere e la missione nello Yemen
Lavoro e famiglia
Scaini ha fatto medicina perché sognava di andare in Africa. «Come molti miei colleghi, anche se poi spesso diventa difficile conciliare con lavoro e famiglia, devi stare fuori per periodi più o meno lunghi». Otto anni fa si è presentata l’occasione, c’era bisogno in Etiopia, e lui non se l’è lasciata scappare. «Una volta che sei lì scatta qualcosa, io lo chiamo il punto di non ritorno. Ti rendi conto che puoi essere davvero utile. Quando una mamma piange, implora di salvargli l’ultimo figlio che le è rimasto, e tu puoi restituirglielo guarito, ecco, tutto questo ti ripaga di ogni sacrificio». Le missioni di Scaini durano in genere non più di tre mesi. Per scelta personale («Ho una figlia di 15 anni, credo che abbia il diritto di crescere con il padre vicino»), e di lavoro, per non abbandonare troppo il suo ambulatorio. «Anche se c’è sempre qualcuno che si lamenta, che dice che non ci sono mai, per me tutti i pazienti hanno la stessa dignità. Curare una polmonite in Congo o il colesterolo alto qui in Italia è lo stesso. Non mi sento un supereroe, ma semplicemente un medico. Quando mi chiedono perché lo fai? Io rispondo : e perché non lo dovrei fare?».
L’intervento nello Yemen
Un po’ di coraggio sicuramente ci vuole. Lo Yemen, per esempio, è diventato un posto complicato, le fazioni in lotta mutano continuamente, neppure gli ospedali vengono risparmiati dai bombardamenti. «Quando senti il rumore di un aereo corri subito a nasconderti». Nel Paese più povero del Medio Oriente, Medici senza frontiere è presente con l’intervento più importante in una zona di conflitto: ci sono équipe in 12 ospedali e 11 governatorati, da marzo 2015 a dicembre 2018 hanno eseguito 81.102 interventi chirurgici, curato quasi 120 mila feriti, fatto nascere 68.702 bambini, affrontato 116.687 casi di colera. Scaini è stato il coordinatore medico, aprendo anche nuove strutture. Ha lavorato anche in Siria, Etiopia, Iraq, Sud Sudan, e in Liberia e Sierra Leone nel 2014 quando scoppiò l’emergenza Ebola. «Noi di Msf eravamo già lì a chiedere l’intervento degli organismi internazionali. Era davvero una scena apocalittica, i primi giorni ci siamo limitati a spostare i cadaveri. Adesso se c’è un nuovo allarme, ma per fortuna anche molta più consapevolezza e attenzione».
Le storie
Avrebbe mille storie da raccontare. «Come il ragazzino che mi raccontò che durante il viaggio nel deserto fuggendo dal Sud Sudan i suoi compagni che morivano venivano buttati uno alla volta giù dal camion. Una storia terribile ma quello che più colpì ero come lo diceva, come se fosse normale». Ci sono momenti in cui puoi essere preso dallo sconforto, pensare di non fare abbastanza. «Una volta la mia responsabile nello Yemen mi disse: non pensare a chi non ce la fa, ma a tutti quelli che riusciamo a salvare. Finché puoi dare il tuo contributo, allora vuol dire che ne è valsa la pena».
Italia e Africa
Quando torna in Italia, con la stessa energia si dedica ai suoi pazienti della mutua. «È vero, sono due mondi agli antipodi, ma rappresentano due facce della stessa medaglia. In fondo sia qui che lì mi occupo di malnutrizione: in Africa il problema è la carenza di cibo, qui l’eccesso, mi tocca curare le patologie del benessere». Anche gli strumenti sono gli stessi. Dello stetoscopio per esempio cambia solo il colore. «A Misano è nero, in Africa ne ho uno rosso. Perché attrae i bambini, se lo afferrano hanno voglia di giocare, e vuol dire che sono guariti».
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